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Volodyk - Paolini2-Eldest

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 Volodyk - Paolini2-Eldest
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Paolini2-Eldest
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La facilità con cui uccideva lo sorprese. I soldati non avevano una sola possibilità di fuggire o reagire all'attacco. Com'e diverso dal Farthen Dùr, pensò. Tuttavia, malgrado lo stupore per la perfezione delle sue capacità, la morte era sempre una cosa sgradevole. Ma non c'era tempo per riflettere.

Ripresosi in fretta dall'assalto iniziale dei Varden, l'esercito imperiale cominciò ad azionare le sue macchine da guerra: catapulte che lanciavano missili rotondi di ceramica indurita, trabocchi caricati con barili di fuoco liquido, e baliste che bersagliavano gli aggressori con una gragnuola di frecce lunghe sei piedi. Le palle di ceramica e il fuoco liquido provocavano danni terrificanti quando toccavano terra. Una palla esplose sul terreno a meno di dieci iarde da Saphira. Mentre Eragon si rifugiava dietro lo scudo, un frammento tagliente come un rasoio schizzò verso la sua testa, ma venne bloccato a mezz'aria da uno dei suoi incantesimi di difesa. Eragon fremette per l'improvvisa perdita di energia. Le macchine arrestarono l'avanzata dei Varden, seminando morte e orrende mutilazioni su chiunque venissero puntate. Dobbiamo distruggerle, se vogliamo durare abbastanza da fiaccare l'Impero. Sarebbe stato facile per Saphira smantellare le macchine, ma la dragonessa non osava volare fra i soldati per paura di essere aggredita con la magia. Aperto un varco fra le linee dei Varden, otto soldati nemici piombarono su Saphira, armati di picche. Ancor prima che Eragon avesse il tempo di sguainare Zar'roc, i nani e i Kull eliminarono l'intero gruppo.

«Ben fatto!» ruggì Garzhvog.

«Ben fatto!» gli fece eco Orik con un ghigno sanguinario.

Eragon non usò incantesimi contro le macchine, prevedendo che fossero protette da ogni sortilegio possibile. A meno che... Dilatando la mente, trovò quella di un soldato addetto a una delle catapulte. Pur sapendo che l'uomo doveva essere protetto da qualche stregone, Eragon riuscì a dominarlo e a dirigere le sue azioni da lontano. Guidò l'uomo verso la macchina che stavano caricando, poi lo indusse a usare la spada per tagliare la grossa fune ritorta che azionava il congegno. La corda era troppo spessa perché si spezzasse prima che il soldato venisse trascinato via dai compagni, ma il danno era stato fatto. Con un sonoro schianto, la fune lacerata cedette, facendo volare il braccio della catapulta che ferì gravemente alcuni uomini. Le labbra arricciate in un bieco sorriso, Eragon passò a un'altra catapulta e, in rapida successione, rese inoffensivo il resto delle macchine.

Tornato in sé, si accorse che decine di Varden cadevano intorno a Saphira; uno del Du Vrangr Gata era stato sopraffatto. Lanciando una feroce imprecazione, ripercorse la scia di magia e risalì all'uomo che aveva scagliato l'incantesimo fatàle, affidando l'incolumità del suo corpo e di Saphira alle sue guardie.

Per oltre un'ora, Eragon diede la caccia agli stregoni di Galbatorix, ma con scarso esito, perché erano astuti e prudenti, e non lo attaccavano mai direttamente. La loro renitenza lo sconcertava, finché non riuscì a strappare dalla mente di uno stregone - pochi istanti prima che si suicidasse - il pensiero: ha ordinato di non uccidere il Cavaliere o il drago... non uccidere il Cavaliere o il drago.

Questo risponde al mio interrogativo, disse a Saphira, ma perché Galbatorix ci vuole vivi? Ormai è fin troppo chiaro da che parte stiamo.

Prima che la dragonessa potesse rispondere, davanti a loro comparve Nasuada, il volto rigato di polvere e sudore, lo scudo ammaccato, il sangue che le scorreva lungo la gamba sinistra per una ferita alla coscia. «Eragon» ansimò, «ho bisogno di entrambi. Dovete combattere allo scoperto, dovete mostrarvi per incoraggiare gli uomini... e spaventare i nemici.»

Le sue condizioni allarmarono Eragon. «Lascia prima che ti guarisca» esclamò, temendo che potesse svenire. Devo circondarla di altre protezioni.

«No! Io posso aspettare, ma siamo perduti se non arginate la marea nemica.» I suoi occhi erano vitrei e vacui, globi bianchi sul volto nero. «Abbiamo bisogno di... un Cavaliere.» Nasuada vacillò sulla sella.

Eragon levò Zar'roc al cielo in segno di saluto. «Eccomi, mia signora.»

«Andate» disse lei, «e che gli dei, se esistono, vi proteggano.»

Eragon si trovava troppo in alto su Saphira per colpire i nemici a terra, così smontò di sella e si piazzò accanto alla sua zampa destra. A Orik e Garzhvog disse: «Proteggete il fianco sinistro di Saphira. E qualunque cosa facciate, non mettetevi fra i piedi.»

«Verrai sopraffatto, Spadarossa.»

«Non accadrà» disse Eragon. «Ai vostri posti!» Poi mise una mano sulla zampa di Saphira e la guardò in un limpido occhio azzurro. Balliamo, dolcezza?

Balliamo, piccolo mio.

Eragon e Saphira fusero le proprie identità a un livello mai raggiunto prima, annullando ogni differenza fra di loro per diventare una singola entità. Ruggirono, si slanciarono in avanti e si aprirono una strada verso la prima linea. Una volta raggiunta, Eragon non seppe più distinguere di chi fosse la bocca che eruttò selvagge lingue di fuoco che avvolsero una decina di soldati, cuocendoli nelle proprie armature, né di chi fosse il braccio che roteò Zar'roc per abbatterla sull'elmo di un nemico.

L'odore metallico del sangue impregnava l'aria, mentre cortine sfrangiate di fumo ondeggiavano sulle Pianure Ardenti, ora nascondendo ora rivelando masse, grovigli, schiere e battaglioni di corpi in fermento. In alto, i voraci spazzini del cielo aspettavano il lauto banchetto, mentre il sole proseguiva il suo cammino verso lo zenit.

Dalle menti di coloro che li attorniavano, Eragon e Saphira colsero frammenti di immagini di come apparivano agli altri. Saphira veniva sempre notata per prima: un'enorme, furiosa creatura con zanne e artigli macchiati di rosso, che uccideva chiunque le capitasse a tiro con violente zampate e guizzi di coda e turgide vampate di fuoco che travolgevano interi plotoni. Le sue fulgide squame brillavano come tante stelle incandescenti che abbagliavano i nemici con i loro riflessi. Poi, al suo fianco, scorgevano Eragon. La sua rapidità era superiore alla capacità di reazione dei soldati; con una forza sovrumana schiantava scudi con un colpo solo, squarciava armature e spezzava le armi di chi gli si opponeva. Le frecce e le lance scagliate contro di lui cadevano sul terreno fetido a dieci piedi di distanza, fermate dai suoi incantesimi di protezione.

Fu più difficile per Eragon - e di conseguenza, per Saphira - combattere contro quelli della sua stessa razza rispetto a quanto lo era stato combattere contro gli Urgali nel Farthen Dùr. Ogni volta che vedeva un volto terrorizzato o guardava nella mente di un soldato, pensava: Potrei essere io. Ma lui e Saphira non potevano concedersi nessuna compassione; se un soldato si parava davanti a loro, moriva.

Tre volte i nemici tentarono una sortita, e tre volte Eragon e Saphira uccisero ogni soldato delle prime file dell'Impero, prima di ritirarsi nel corpo centrale dei Varden per non essere accerchiati. Al termine dell'ultima incursione, Eragon si vide costretto a ridurre o eliminare alcuni incantesimi che proteggevano Arya, Orik, Nasuada, Saphira e se stesso per impedire al dispendio di energia di stancarlo troppo presto. Perché, pur essendo grande la sua forza, lo erano anche le necessità della battaglia.

Pronta? chiese a Saphira, dopo un breve momento di tregua. La dragonessa ringhiò un assenso. Un nugolo di frecce sibilò verso Eragon nell'istante in cui si rituffò nella mischia. Fulmineo come un elf o, ne schivò la maggior parte, dato che la magia non lo proteggeva più da simili proiettili, ne parò dodici con lo scudo e barcollò quando una lo colpì al ventre e una al fianco. Nessuna delle due perforò l'armatura, ma gli mozzarono il fiato e gli lasciarono lividi grossi quanto una mela. Non fermarti! Hai sopportato dolori ben più grandi di questo, si disse. Piombando su un gruppo di otto soldati, Eragon menò fendenti a destra e a manca, facendo volare le picche, con Zar'roc che sfolgorava come una mortale saetta. Ma il combattimento gli aveva rallentato i riflessi, e un soldato riuscì a trapassargli l'usbergo con la picca, lacerandogli il tricipite sinistro.

I soldati impietrirono quando Saphira ruggì.

Eragon approfittò della distrazione per fortificarsi con l'energia conservata nel rubino del pomo di Zar'roc e poi uccidere gli ultimi tre uomini.

Spazzando il terreno con la coda, Saphira gli sgomberò la via da una ventina di soldati. Nel breve lasso di tempo, Eragon si guardò la carne viva e pulsante del braccio e disse: «Waise heill.» Si guarì anche i lividi, ricorrendo non solo al rubino, ma anche ai diamanti nella cintura di Beloth il Savio.

Poi i due ricominciarono a combattere.

Eragon e Saphira riempirono le Pianure Ardenti di cataste di cadaveri, ma l'Impero non accennava a fermarsi o a ritirarsi. Per ogni uomo che uccidevano, un altro prendeva il suo posto. Un senso d'impotenza cominciò a gravare sul cuore di Eragon nel vedere la massa di soldati nemici costringere via via i Varden a indietreggiare verso l'accampamento. Vide la sua stessa disperazione specchiata nei volti di Nasuada, Arya, re Orrin e persino di Angela, quando li incontrò sul campo di battaglia.

Tutto il nostro addestramento e non riusciamo ancora a fermare l'Impero, fu il suo grido di angoscia. Sono troppi! Non possiamo andare avanti così all'infinito. E Zar'roc e la cintura sono quasi esaurite.

Puoi attingere energia da quello che ti circonda, se necessario.

No, a meno che non riesca a uccidere un altro degli stregoni di Galbatorix per prenderla dai soldati. Altrimenti farei soltanto del male ai Varden, dato che non ci sono piante o animali qui attorno.

Col passare delle ore, Eragon si sentiva sempre più stanco e dolorante; privato di molte delle sue arcane difese, accumulò decine di ferite minori. Il braccio sinistro era intorpidito per aver assorbito gli innumerevoli colpi che gli avevano deformato lo scudo. Un fiotto di sangue caldo, misto a sudore, gli colava da un taglio sulla fronte accecandolo di continuo. E aveva la sensazione di avere almeno un dito rotto.

Saphira non stava meglio. Le armature dei soldati le laceravano le mucose della bocca, decine di spade e di frecce le perforavano le ali indifese, e un giavellotto le trapassò la corazza, ferendola a una spalla. Eragon vide arrivare il giavellotto e cercò di deviarlo con un incantesimo, ma fu troppo lento. Ogni volta che Saphira si muoveva, inondava il terreno con una pioggia di gocce di sangue.

Accanto a loro, caddero tre guerrieri di Orik e due Kull.

E il sole iniziò la sua parabola discendente.

Mentre Eragon e Saphira si preparavano per il loro settimo e ultimo assalto, a est risuonò uno squillo di tromba, limpido e potente, e re Orrin gridò: «I nani sono qui! I nani sono qui!»

I nani? Eragon battè le palpebre e si guardò intorno, confuso. Non vedeva altro che soldati nemici. Poi si riscosse in un fremito di eccitazione. I nani! Balzò in groppa a Saphira, che spiccò subito il volo, e rimase per qualche istante librata sulle ali malconce per osservare il campo di battaglia.

Era vero: un grande esercito avanzava da est verso le Pianure Ardenti. Alla sua testa marciava re Rothgar, con la sua cotta di maglia d'oro, l'elmo tempestato di gemme, e Volund, l'antica mazza da guerra, stretta nel pugno di ferro. Il re dei nani alzò Volund in segno di saluto quando scorse Eragon e Saphira.

Eragon ululò a pieni polmoni e ricambiò il gesto sventolando in aria Zar 'roc. Grazie a una scarica di rinnovato vigore dimenticò le ferite, e si sentì di nuovo gagliardo e feroce. Saphira aggiunse la propria voce alla sua, e i Varden la guardarono colmi di speranza, mentre i soldati imperiali esitavano per la paura.

«Cos'hai visto?» gridò Orik quando Saphira tornò a terra. «È Rothgar? Quanti guerrieri ha portato?» Ebbro di entusiasmo, Eragon si levò sulle staffe ed esclamò: «Animo, amico mio, re Rothgar è qui! E a quanto pare ha portato con sé ogni singolo nano! Schiacceremo l'Impero!» Quando gli uomini smisero di esultare, aggiunse: «Ora brandite le vostre spade e ricordate a questi codardi pidocchiosi perché devono avere paura di noi. All'attacco!» Proprio mentre Saphira stava per slanciarsi contro i soldati, Eragon sentì un secondo grido, questa volta provenire da ovest: «Una nave! Una nave che risale il fiume!»

«Maledizione!» ringhiò. Non possiamo permettere che una nave porti rinforzi all'Impero. Si mise in contatto con Trianna e le disse: Di' a Nasuada che ce ne occuperemo io e Saphira. Affonderemo la nave, se appartiene a Galbatorix. Come desideri, Argetlam, rispose la maga.

Senza un attimo di esitazione, Saphira si alzò in volo, tracciando cerchi sempre più ampi sulla pianura devastata e fumante. Mentre il clamore incessante della battaglia scemava con l'altezza, Eragon trasse un profondo respiro e si schiarì la mente. Sotto di loro, rimase sorpreso nel vedere come si erano frammentati gli eserciti. L'Impero e i Varden si erano disintegrati in una miriade di piccoli gruppi che si fronteggiavano in lungo e in largo per tutte le Pianure Ardenti. Fu in questo caos che si inserirono i nani, attaccando l'Impero su un fianco, come aveva fatto Orrin in precedenza con la cavalleria.

Eragon perse di vista la battaglia quando Saphira virò a sinistra e cabrò oltre le nubi verso il fiume Jiet. Una raffica di vento spazzò via il fumo di torba e svelò un grande veliero a tre alberi che risaliva l'acqua arancione controcorrente, spinto da due ordini di remi. La nave era scalfita e danneggiata, e non batteva alcuna bandiera che rivelasse la sua appartenenza.

Eragon si preparò a distruggere il veliero. Mentre Saphira scendeva in picchiata, Eragon fece roteare Zar'roc sulla testa e lanciò il suo terribile grido di guerra.

Convergenza

Roran era in piedi a prua dell'Ala di Drago e ascoltava il rumore dei remi che sferzavano l'acqua. Aveva appena finito il suo turno di voga e un dolore freddo e pulsante gli trafiggeva la spalla destra. Dovrò convivere per sempre con questo ricordo dei Ra'zac? Si asciugò il sudore dalla fronte e ignorò il disagio, concentrandosi sul fiume, oscurato da un banco di nuvole caliginose.

Elain lo raggiunse al parapetto. Si posò una mano sul ventre gonfio. «L'acqua ha un brutto aspetto» disse. «Forse dovevamo restare a Dauth, invece che andare in cerca di altri guai.»

Roran sospettò con timore che la donna avesse ragione. Dopo aver superato l'Occhio del Cinghiale, avevano veleggiato verso est, oltre le Isole Meridionali, per avvicinarsi alla costa. Entrati nella foce del fiume Jiet, erano arrivati al porto surdano di Dauth. Il tempo di toccare terra e le loro scorte erano oramai esaurite; gli uomini anche. Roran aveva avuto tutte le intenzioni di restare a Dauth, specie dopo aver ricevuto un'entusiastica accoglienza da parte del governatore, ledy Alarice. Ma questo era stato prima di venire a sapere dell'esercito di Galbatorix. Se i Varden fossero stati sconfitti, non avrebbe mai più rivisto Katrina. Così, con l'aiuto di Jeod, aveva convinto Horst e molti altri compaesani che se volevano vivere nel Surda, liberi dall'Impero, dovevano risalire iljiume Jiet per dare man forte ai Varden. Fu un'impresa difficile, ma alla fine Roran prevalse. E una volta che ebbero messo al corrente ledy Alarice delle loro intenzioni, l'alta funzionarla li rifornì di tutto il necessario.


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